In tutto questo prendere coscienza del nostro esistere, di provare a liberarci dai vari meccanismi che ci rendono schiavi, mi sono accorta che ci sono dei sassi psichici che spesso bloccano il passaggio.
Sono quelli sui quali ci rompiamo la testa e alcune volte perdiamo l’entusiasmo e il senso del lavoro interiore.
Quante volte hai provato a spingere via un pensiero scomodo?
Magari lo hai nascosto sotto una montagna di cose da fare, o lo hai coperto con un sorriso forzato. Eppure, più tenti di respingerlo, più lui torna. Come l’acqua che trova sempre una fessura, anche ciò che rifiuti si insinua da qualche parte.
Allora ho ricordato un concetto potente lasciatoci da Jung : “ciò a cui resisti, persiste”. Non è una condanna, è una legge della psiche. Quando ci opponiamo a qualcosa dentro di noi, in realtà la stiamo alimentando. La resistenza è un cordone invisibile che tiene stretto ciò che vogliamo allontanare.
Per questo motivo Sibaldi, nel lavoro sui 101 desideri, non si stanca di dire che occorre dimenticarsi di ciò che abbiamo desiderato. Perché se desideriamo qualcosa, inizialmente è perché ci manca e se non siamo allenati alla libertà di avere e di essere, questa mancanza si trasforma rapidamente in sentimento a bassa frequenza, quindi creiamo inconsapevolmente una resistenza a lasciare andare quel vuoto, quella mancanza.
Così succede anche per altre lezioni di vita. Finchè non impariamo la lezione, ci viene riproposta e i test diventano sempre più impegnativi da superare.
So perfettamente che non è semplice da mettere pratica, perché il meccanismo del giudizio è limitante, invece dovremmo fare un ulteriore lavoro riguardo a quanto proviamo.
Quando ci blocchiamo in uno schema, che sia per mancanza o per incomprensione, produciamo emozioni come dolore, rabbia, e anche paura… ma queste non sono macchie da cancellare, sono messaggeri. Portano notizie da un luogo interiore che forse non abbiamo ancora avuto il coraggio di visitare. E più li respingiamo, più bussano forte. È come un bambino che piange nella stanza accanto: puoi chiudere la porta e alzare il volume della musica, ma il pianto continuerà. Solo quando entri e lo prendi in braccio, smette di urlare.
Così, anziché contrastare quanto proviamo, possiamo imparare ad accettarlo.
Accettare non significa subire. Non è rassegnazione.
È dire: “Ti vedo. Ti lascio uno spazio, così che tu possa dirmi cosa vuoi mostrarmi”. È uno sguardo che accoglie invece di respingere. E in quello sguardo succede qualcosa: l’energia che prima era imprigionata nella lotta si libera, e quello che ci sembrava insopportabile si ammorbidisce.
La vita non ci chiede di costruire corazze perfette, ma di diventare permeabili. Di lasciare che le emozioni passino attraverso, senza più trattenerle come nemici. È un esercizio di fiducia: credere che possiamo restare interi anche quando ci lasciamo attraversare da ciò che temiamo.
La prossima volta che sentirai dentro una resistenza, prova a non combatterla. Resta. Respira. Ascoltala. Magari scoprirai che dietro quel dolore c’è un desiderio. Dietro la paura, un invito al coraggio. Dietro la rabbia, un bisogno di giustizia o di amore.
Ciò a cui resisti persiste. Ciò che abbracci, invece, si trasforma.
Jung voleva dirci che la necessità della trasformazione interiore server per rompere gli schemi ricorrenti ed è una componente essenziale della crescita psicologica e del cambiamento.
Ritengo quindi che sia necessario porre attenzione a questo aspetto dentro di noi.
E ti lascio con una riflessione che ti invito a fare, prendendoti il giusto tempo:
Se smettessi di resistere proprio adesso, a cosa potresti finalmente fare spazio nella tua vita?
Foto di copertina di blizniak da Pixabay
Testo a cura di Serena Tracchi
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